Il primo Zorro non si scorda mai….
Era il momento più atteso della giornata di noi bambini degli anni sessanta. L’inizio della TV dei ragazzi. Tanti beniamini, da Rin Tin Tin a Furia, ai cartoni di Hanna e Barbera. Ma ce n’era uno in particolare che quando partiva la sigla ci metteva tutti seduti in silenzio, in fervente aspettativa.
Il fulmine che scende dal cielo, il cavaliere mascherato in groppa al cavallo Tornado, nero come lui e come la notte californiana. Zorro, una delle più felici intuizioni della Walt Disney Productions, affidato alla scanzonata interpretazione di Guy Williams, l’oriundo italiano Armando Joseph Catalano, nato pochi anni dopo che il personaggio che l’avrebbe reso famoso era uscito come romanzo a puntate su una rivista americana.
La sigla da sola valeva tutto il telefilm (praticamente la prima serie cult della storia della nostra televisione) e nei pochi secondi dell’esibizione dello spadaccino che tracciava la zeta come firma su tutto e tutti ci lanciava in un universo avventuroso forse mai più eguagliato. Composta da Norman Foster e George Burns e cantata dal gruppo semisconosciuto dei Mellomen, era stata in qualche modo involgarita poi dalle repliche italiane succedutesi per tutto il decennio successivo. «Buio com’é, non c’é luna né stelle…», e via dicendo.
Dopo Guy Williams altri attori di nome – sulla scia di quel Douglas Fairbanks jr. che aveva portato al cinema per primo Il segno di Zorro nel 1920 – si erano cimentati con la leggenda dell’eroe mascherato per antonomasia indossandone la maschera.
Nel 1975 era toccato ad Alain Delon, sotto la direzione di Duccio Tessari e con la colonna sonora degli Oliver Onions, che allora andavano per la maggiore. Zorro is back aveva un suo ritmo accattivante, come tutto il film di Tessari che si avvaleva tra l’altro della partecipazione di una Ottavia Piccolo niente male nei panni della damigella in pericolo. I cui occhi non sfiguravano affatto vicino a quegli azzurri del bell’Alain che spuntavano da sotto la maschera nera.
Nel 1990 un tentativo di rinnovare la vecchia magia Disney aveva lasciato abbastanza il tempo che aveva trovato. Duncan Regehr non bucava lo schermo come Guy Williams, o forse semplicemente il tempo che era passato non rendeva più appetibili certi telefilm per un pubblico infantile diverso da come eravamo stati noi venti o trenta anni prima. Ma la sigla era stata all’altezza, My name is Zorrosi ascoltava sempre con piacere.
Poi fu la volta di Antonio Banderas, che prima ancora che il malvagio Vicere don Rafael Montero dovette sconfiggere in un confronto di carisma cinematografico nientemeno che Anthony Hopkins. Il film comincia con la Maschera di Zorro sul volto del pluripremiato attore inglese, e finisce su quello del più giovane e allora di belle speranze attore spagnolo.
«Ci sarà sempre uno Zorro», è il messaggio finale di un bel film. Purtroppo poi appesantito da un pessimo sequel, dove l’unica cosa da salvare è la sempre notevole presenza scenica di Catherine Zeta – Jones, la Zorro-girl di turno.
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